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Cristianesimo e interculturalità. Dialogo, ospitalità, ethos
di Carmelo Dotolo

Introduzione

«Nel mondo di oggi gli avvenimenti ci rincorrono: è impossibili fuggirli, perché il mondo si è fatto stretto e isolarsi non può essere una soluzione. Questa nuova dimensione dell’esistenza ha un profondo significato etico. Comporta, infatti, che non possiamo nasconderci nemmeno davanti alle nostre responsabilità morali. Anche in questo senso il mondo è diventato piccolo. Non possiamo chiudere gli occhi. Non possiamo cercare un senso più alto alla vita o allo stesso volto di Dio senza interrogarci sulla realtà così com’è e sul nostro posto e la nostra responsabilità in essa» (CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Lettera ai cercatori di Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009, 40).

Il cristianesimo è chiamato, ancora una volta, a vivere e realizzare un’esperienza inedita. E sarebbe superfluo ipotizzare tale esperimento come semplice strategia di aggiustamento o riequilibrio mondiale, perché la congiuntura attuale non sembra gradire formule scontate o ricette pronte all’uso. Nel qual caso non contribuirebbe, di fatto, all’esercizio esaltante di immaginare un mondo diverso, ma farebbe solo il gioco di quell’ambivalenza ideologica che preferisce che la religione rimanga sullo sfondo del privato o prenda partito per alcune forme di vita sociale. Inutile prodigarsi per una significativa forma di civiltà universale, visto che le diversità e le potenziali conflittualità presenti nelle molteplici visioni del mondo disilludono rispetto al sogno (irrealizzabile?) di una convivialità delle differenze. Certo. Il riferimento alla globalizzazione come orizzonte di un cambiamento promettente, campo di ricerca sui rapporti tra etnia e nazioni, multiculturalismo e democrazia, simboli culturali e avvenimenti sociali, ha creato la speranza di una migliore qualità della vita per tutti. Ma, parimenti, ha riattizzato le ceneri sommerse di rivendicazioni locali di identità finalmente libere di affermare i propri diritti e valori, dopo una deprimente stagione di colonialismo e migrazioni forzate. Eppure, il meccanismo dell’interazione culturale si è messo in moto. Per quanto lo si voglia, e giustamente, opporvisi come espressione di un’ideologia a senso unico, ciò che la globalizzazione non consente più è l’isolamento socio-culturale. Tutti, ormai, siamo dentro rapporti di vicinato, con effetti molteplici e complessi, dove all’armonia può subentrare il conflitto, e dall’opposizione più radicale nascere germogli di incontri e dialoghi.

È questo, in fin dei conti, l’enigma della multiculturalità con cui dobbiamo fare i conti: la combinazione nuova di quegli elementi culturali che sono soggetti a perturbazioni nelle pratiche e, anche, negli assetti teorici. Valori, criteri etici, credenze, tradizioni religiose entrano in un tessuto multirelazionale intricato e intrigante, nel quale le identità fuoriescono dai canoni di una precisa fisionomia, per diventare multiple, agili, flessibili. Tuttavia, la storia sembra mostrare il lato fragile di questo ideale multiculturale, alla cui passione relazionale non seguono, con la stessa energia, scelte costruttive di un’effettiva convivenza nel rispetto delle differenze. Anzi, il panorama tende piuttosto a nascondere dietro lo scintillante scenario delle pluralità, il presupposto che vede la cultura come un’entità o identità fissate una volta per sempre, espressione di uniformità e omogeneità. Rimane il sospetto che essa possa sostituire l’antico concetto di razza, con i limiti artificiali imposti da una visione elitaria. Con l’effetto di rendere gli altri così diversi, a tal punto che è meglio invocare la differenza come segno dell’impossibilità del dialogo e della necessaria resistenza alle influenze estranee.

Tale strategia è, però, rischiosa, perché dimentica la natura discorsiva e processuale della cultura, la sua capacità di elaborare significati socialmente, politicamente, religiosamente innovativi. Per cui, se non è possibile evitare la crescita esponenziale dei contatti culturale, almeno si può operare per una molteplicità organizzata e controllata, dove le differenze comuni si incontrano per promuovere particolarità culturali aperte e disponibili.
In tal senso, è opportuno precisare che la cultura globale non è onnicomprensiva, perché non tutte le differenze sono superabili, né l’uguaglianza può ridursi ad un livellamento dell’identità. La diversità culturale è importante perché vi sia la possibilità di una crescita, il cui livello qualitativo emerge come visione alternativa da assumere, metabolizzare e realizzare. Pena la miseria disumanizzante dei fondamentalismi. Appare evidente, comunque, che non ci si vuole illudere dinanzi alla complessità del nostro tempo che lo rende differente da ogni altro. Il disincanto rispetto a soluzioni pronte all’uso è palpabile. Nondimeno, il cambiare prospettiva è altrettanto doveroso, nell’assunzione di un reale sguardo cosmopolita che esige un’etica interculturale, quale antidoto ad ogni globalizzazione arrogante, modellata su forme di liberalismo individualista. La svolta interculturale può ridisegnare le identità, proprio perché mette a tema quel riferimento all’universale che spesso rimane legato a pregiudizi di inviolabilità culturale presunta in nome di un rispetto senza confronto.

A questo livello si pone la questione della capacità interculturale del cristianesimo, che non è legata immediatamente alla constatazione della pluralità delle religioni. Certo, da essa è sollecitata, almeno in una duplice prospettiva: il ritorno della centralità della religione sulla scena delle relazioni internazionali; il forte impatto che le religioni hanno nell’impianto antropologico di una spiritualità attenta al benessere e alla ricostruzione dell’io appesantito da un’epoca di passioni tristi. Quel che è decisivo è che il contesto plurale religioso invita ad una reinterpretazione del messaggio cristiano in relazione all’attuale esperienza storica, in cui la coesistenza di sistemi di significato esige una giustificazione più articolata e cogente. Da un’altra angolatura: se il rapporto con gli universi simbolici degli ateismi e dell’indifferenza religiosa chiama il cristianesimo alla condivisione di una modalità particolare di esperienza credente, l’incontro con le religioni sposta il baricentro sulla interpretazione di una verità diversa che il cristianesimo indica come servizio ad un’ermeneutica più ampia del religioso. Qui si gioca l’opportunità di dare forma nuova all’inculturazione, un termine a geometria variabile, il cui paradigma si è modificato nel tempo, riflettendosi sull’idea che l’evangelizzazione si fa dentro gli orizzonti culturali. In questo quadro, l’emergere creativo di un ethos è decisivo, se ben inteso, in ragione del fatto che ogni religione reca con sé una visione del mondo e della vita identificante e, per ciò stesso, affidabile.

Ne consegue che la specificità interculturale del cristianesimo si muove a partire dalla sua tipicità relazionale che, nell’evento di Gesù Cristo, apre all’universale antropologico oltre i confini culturali e religiosi. Tale paradossale relazionalità non è teologicamente inefficace, ma costituisce un segno, forse contraddittorio, di una capacità culturale maieutica e, di conseguenza, virtualmente universale. Ben inteso. Non si intende minimizzare le ricchezze delle altre tradizioni religiose, dei loro valori, delle norme etiche e dei comportamenti fondamentali. Tutt’altro. Ma la proposta cristiana intende, con discrezione, condividere uno sguardo sull’umano e sul divino che trova nella singolarità di Gesù un tratto spiazzante, sorprendente, fino ai limiti dell’inverosimile. Forse, fino all’uscita da un certo modo di intendere la religione chiusa nei confini della propria identità sacrale, e non sempre attenta allo sviluppo integrale, la giustizia sociale e la liberazione umana. L’annuncio del Regno sposta i confini culturali del credere, li immette nella fatica di elaborare un’identità aperta alla pienezza della vita, non riconducibile ad un isolato uso dei diritti e delle risorse umane. Si è ben lontano da qualsiasi pretesa di proselitismo tattico; piuttosto, si tratta di una nuova scrittura della storia che, in relazione all’evento che l’ha instaurata, Gesù Cristo, produce delle differenze promotrici di cultura. Il cristianesimo non è pensabile come un dato che si conserva fuori dal tempo, ma come l’indicazione di una pluralità di esperienze e operazioni che prendono forma nell’interrelazione con le culture. E che in tale relazione configura uno stile interculturale segnato dal dialogo e dalla condivisione di un annuncio interessante.

Ma, è poi così importante la dimensione interculturale del cristianesimo? O è, invece, un abile surrogato per riproporre un consenso più ampio alla sua permanenza nelle vicende della vita? L’ipotesi è avanzata da un recente e provocatorio studio di O. Roy, il quale parte da una costatazione che dovrebbe eliminare ogni dubbio in proposito: «La riflessione sull’inculturazione si basa su un principio semplice: la religione non è cultura ma non può esistere al di fuori di una cultura». Tale assunto rinvia alla necessità di una ritrascrizione dei concetti fondamentali della religione e, nel nostro caso, del cristianesimo, in altre culture, ma col rischio di svuotare dal di dentro lo specifico della religione. Tuttavia, ciò rappresenta una strada pericolosa. Al contrario, sembrerebbe che l’unica possibilità che la religione ha per abitare legittimamente lo spazio pubblico, sia quella di esibire la sua purezza carismatica, la più adeguata alla mondializzazione. Anche se si ammanta di fondamentalismo. La purezza carismatica, infatti, è alla base di un processo di deculturazione, in virtù della quale la religione può esibire ancora credenziali utili alla sua significatività sociale. Tale ipotesi è una delle conseguenze del multiculturalismo che ha operato uno stacco del religioso dal proprio territorio (de-territorializzazione), a motivo della circolazione di persone, idee, oggetti culturali, tradizioni etiche. L’effetto è quello di una separazione tra religione e cultura d’appartenenza. Anzi, di una dissociazione dei marcatori religiosi e culturali, che modifica l’evidenza sociale della religione, trasformando in barriere gli spazi tra i credenti e non. Non sorprende un dato. In base a tale analisi, il religioso sperimenta uno strano paradosso: esso si formatta in termini di diritti dell’uomo e di libertà religiosa, per poter rientrare in un paradigma culturale comune. Quale soluzione? La questione appare complessa se, come finemente osserva l’autore, ogniqualvolta si tratta di riflettere sulla relazione tra religione e cultura, si finisce per girare attorno all’insieme dei significati che il termine cultura ha. Più precisamente, si tende a giocare sui prefissi: deculturare, acculturare, inculturare, exculturare. La religione decultura quando si propone di sradicare il paganesimo, si accultura quando si adatta alla cultura dominante, si incultura quando tenta di insediarsi al centro di una determinata cultura, si excultura quando si concepisce come intenta a prendere le distanze dalla cultura dominante di cui era parte integrante ma che, all’improvviso o progressivamente, appare sotto una luce negativa, “pagana” o irreligiosa e, dunque, distruttiva. Ma la religione fabbrica anche cultura.

Ebbene, se il problema è una riformulazione del religioso, ciò implica, analogamente, una ridefinizione del culturale, onde evitare lo scarto tra marcatori culturali e religiosi. Ma, di fatto, l’esperienza pare mostrare il contrario, portando ad una conclusione estrema: l’impossibilità di una coesistenza tra religione e cultura, e l’opzione di ridare autonomia alla religione, elaborando il lutto del culturale. Solo attraverso una dinamica di exculturazione è possibile valorizzare il religioso e il culturale. Lo esige il multiculturalismo, che spinge per una riformattazione delle religioni nella distanza dalla cultura circostante. Con l’esito che alcune religioni etniche si universalizzano, specie in contesti migratori, sfociando in vere e proprie “neoetnie”. Un vantaggio, però, è percepibile. Il nuovo format religioso sembra accomunare la pluralità delle religioni, nel senso che realizza una triplice convergenza sul registro del simile, più che dell’eterogeneo: a) convergenza nella religiosità, cioè in una definizione espressa nei termini della ricerca spirituale, cui il mercato offre prodotti diversi; b) convergenza nella definizione, in quanto la nozione di religione, priva di un contenuto preciso, diventa un paradigma normativo; c) convergenza istituzionale tra le religioni. Il tutto nella logica di un’omogeneizzazione del religioso che continua a ricomporsi senza più riferirsi alla cultura, aprendo, però, un velo d’ignoranza, di santa ignoranza, preludio di violenze e rinnovate discriminazioni.

L’analisi stringente sembra scoraggiare il tentativo di ripensare la dimensione culturale del cristianesimo, con la sensazione che la frattura sia favorevole ad una suddivisione delle competenze. Ma sarebbe una soluzione valida, il ritirarsi in uno spazio socio-culturale privato, conflittuale o indifferente alla fatica del quotidiano vivere? Che valore avrebbe una religione preoccupata della sua purezza, se non interagisce con gli stili educativi e valoriali delle culture? Il cristianesimo suggerisce, pur nel prisma delle tradizioni, un’altra via: quella di una proposta che intende condividere una diversa passione per il mondo, senza pretendere di gestirlo, ma con la consapevolezza che vivere in un modo o in un altro non è senza conseguenze sulla qualità dell’esistenza personale e sociale. Nella logica dell’interrogazione, della relativizzazione culturale e di una criteriologia basata sui valori del Regno, il cristianesimo può aiutare ad immaginare un mondo diverso, forse alternativo, conscio che la libertà è un cammino faticoso, segnato dall’agire dello Spirito che dona vita aprendo gli spazi verso l’alterità. E poiché la libertà cristiana (cf. 2 Cor 3,17) si nutre dell’amore, l’energia che lo Spirito immette nella storia non può non provocare sane disfunzioni sociali e culturali, là dove il dono della vita si interrompe in logiche individualistiche e oppressive. In tal modo, la dimensione interculturale del cristianesimo si espliciterà nella collaborazione ad una umanità conviviale, la cui ricerca dell’universale respirerà l’anelito alla giustizia, alla solidarietà, alla reintegrazione delle vittime, alla salvaguardia dell’ambiente.

L’etica ha bisogno di un Dio che sia ben più di un’etica. E nella misura in cui dimentichiamo, addirittura riduciamo al silenzio, questo Dio sovra-etico, fonte e orizzonte ultimo di ogni etica, ci rimettiamo agli idoli, a dèi fatti con le nostre stesse mani, ad una fede che non si fonda sulla vita, ma sulla totyra e sulla morte di molti esseri umani. Proprio perché Dio si contrappone ai nostri idoli e perciò è “un Dio geloso”, egli si mostra “Dio dell’umanità”: il nostro Dio, il cui onore non entra mai in conflitto con la nostra dignità, ma al contrario la conserva e promuove.

Indice

C. Dotolo, Cristianesimo e interculturalità.Dialogo, ospitalità, ethos, Cittàdella Editrice.

INTRODUZIONE

CAPITOLO 1
Inculturazione e pluralismo. Implicazioni e dinamiche

1 Il significato di una svolta
2 Il cambiamento delle strutture di credibilità
3 Gli scenari del pluralismo
4 La tensione universale dell’inculturazione

CAPITOLO 2
Evangelizzare le culture. Modelli interpretativi

1 La diaconia culturale del kerygma
2 Dinamismi dell’evangelizzazione tra acculturazione e liberazione
3 La legittimità del processo di inculturazione

CAPITOLO 3
Elaborare una cultura differente. Il contributo del cristianesimo

1 La tipologia relazionale e sociale della cultura
2 Cultura come progetto di vita
3 Una finestra creativa sulla realtà
4 Il di più dell’interculturalità
5 Il Vangelo, mappa delle possibilità umane

CAPITOLO 4
I percorsi del dialogo. Per un’identità interculturale

1 Per una interconnessione tra culture
2 Identità, tradizione, libertà culturale
3 Verso un dialogo interculturale
4 Dialogo interreligioso ed ethos

CAPITOLO 5
Comprendersi nell’altro. Dal riconoscimento all’arte del convivere

1 Nel segno di una rottura instauratrice
2 Oltre l’indifferenza. Diversità culturale e confronto creativo
3 L’altro come estraneo, ovvero la scelta dell’empatia
4 Responsabilità e costruzione d’identità
5 Riattivare l’interculturalità del cristianesimo

CAPITOLO 6
I processi dell’interculturalità. Diritti umani, nuovi stili di vita, etica economica

1 L’orizzonte culturale della teologia e prassi cristiane
2 L’uguaglianza dei valori, esigenza dell’interculturalità
3 In ascolto delle culture differenti
4 Cercare ciò che accomuna
5 L’universale etico dei diritti
6 Il dovere della solidarietà e fraternità
7 Un’economia umanizzante
8 Rispetto ambientale e responsabilità spirituale

CAPITOLO 7
Come lievito. Per una teologia dell’interculturalità

1 Memoria progettuale e metodo di lettura
2 Lo stile di Gesù: coltivare l’umanità
3 Regno di Dio ed empatia culturale: il compito della Chiesa
4 Il non ancora del Vangelo
5 Partecipare alla costruzione del senso: l’educativo liturgico

CONCLUSIONI