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Il dilemma della relazione verità – autorità tra soggettività e pluralismo
di Carmelo Dotolo

1 La verità e l’autorità nella fine dei grandi racconti

Uno degli atteggiamenti che sembra caratterizzare, anche se non definire, la atmosfera e il sentire comune della contemporaneità, è quella di un sereno disincanto nei confronti di ciò che ha il volto dell’ideologia, ritenuta responsabile dei fallimenti del mondo attuale. Con la pretesa di organizzare la realtà, l’ideologia, nelle varie forme politiche, religiose, etiche, ha sortito l’effetto di ingabbiare la vita, di darle un orientamento rigido, di indicare valori e norme rivestiti di un’autorità che appella ad un tribunale supremo indisponibile qui e ora. Ma non è così, almeno secondo la scuola dei maestri del sospetto, la quale ha mostrato come la fuga nel paradiso artificiale dell’ideologia è un modo per evitare l’incontro con la verità della vita, perché il migliore dei mondi possibili è la vita stessa. Per questo, come si esprime uno dei principali teorici della condizione postmoderna, J.F. Lyotard, abitiamo un tempo in cui le grandi narrazioni o i discorsi totali che hanno tessuto il racconto della modernità hanno esaurito le proprie credenziali: concetti come verità, tradizione, autorità, ragione, religione, etc. hanno manifestato i limiti di una incapacità di interpretazione della storia e l’ inadeguatezza di progetti rispondenti alla complessa enigmaticità dell’esistenza. Si potrebbe dire che l’ideologia, con i suoi racconti legittimanti, ha tentato di ricondurre la molteplicità della realtà ad un principio unico, miope nei riguardi della sua complessità e concettualmente radicata “in una tradizione che ha privilegiato i sistemi semplici, e che ha definito gli strumenti che sono adatti a questi sistemi”.
La reazione della postmodernità sarebbe quella di una salutare dislocazione operata (e in via di ampliamento) rispetto agli scenari della modernità, in grado di suggerire una trasformazione di principi e valori che hanno contribuito alla realtà del mondo così come esso è. L’interrogativo che emerge, però, è se si tratta realmente del mondo e della vita dell’uomo, o se, invece, si è in presenza di una immagine del mondo prodotta da una lettura che, di fatto, ha reso il mondo della vita uno spazio inabitabile, appesantito dalle contraddizioni di alcuni principi e verità che si scontrano con le esigenze della storia della libertà dell’uomo.
E’ inutile nascondersi. E’ sotto gli occhi di tutti il fatto che la contemporaneità vive, per usare una evocativa metafora freudiana, un disagio di civiltà cui corrisponde una civiltà del disagio, espressa in quelle malattie dello spirito presente che non riescono ad armonizzare il principio del piacere con il principio della realtà. Anche se resiste, con insospettabile freschezza, la questione del senso come sintomo di una rottura instauratrice rispetto alle dichiarazioni di stanchezza nei confronti di una storia irrimediabilmente malata. Non è senza motivo che alcuni interpreti del postmoderno individuano nel prefisso post il segno e il desiderio di rimettersi dal vortice doloroso di una malattia che ha segnato la storia del secolo breve, il Novecento. In altre parole, il tentativo che caratterizza il nostro presente storico a tutti i livelli, religioso, politico, sociale, etico, filosofico…, è quello di operare un superamento, una sorta di inedito ma indispensabile congedo dal passato più o meno remoto. Ma con una avvertenza, secondo alcuni, utile a compensare o risarcire da eventuali illusioni: è opportuno rinunziare a interpretazioni globali della storia, ad una sorta di meccanica razionale degli eventi che ha alimentato l’euforia di un progresso verso il meglio, per abituarsi a coltivare la cultura dell’erranza e dell’errore come traduzione e tensione interna alla verità. Il secolo XX si inaugura “con un atto di grande rinuncia alle filosofie della storia basate sul presupposto che esista una forza delle cose che trascina uomini ed eventi verso una determinata direzione e un determinato obiettivo, entrambi sostanzialmente individuabili”.
Al tempo stesso, però, è avvertita l’esigenza di non rinunciare alla lotta per la verità come avventura decisiva per la vita, come ha mostrato l’enciclica Fides et ratio. Prescindere dalla questione della verità significa abbandonare l’uomo alla dittatura del casuale, a quella “assolutizzazione del caso, anzi del manipolabile” che verrebbe a proporsi come l’unica reale autorità conoscitiva ed etica. Ciò sta ad indicare che senza una adeguata relazione tra verità ed autorità, cioè tra la ricerca del significato della vita e l’affermazione che esso si mostra in un principio altro che chiama l’uomo ad un diverso esercizio della propria libertà, si assisterebbe alla banalizzazione del senso e alla frantumazione mortale della grandi domande. Lo avvertiva già con acutezza G.W.F. Hegel nell’analizzare i tentacoli dello scetticismo:

Certo, seguire la propria convinzione è meglio che rimettersi all’autorità; sostituendo la fiducia nell’autorità con quella nella propria convinzione, però, il contenuto della fiducia stessa non risulta necessariamente mutato, né la verità subentra all’errore. Nel sistema dell’opinione e del pregiudizio, l’unica differenza tra l’attaccarsi all’autorità altrui e l’affidarsi alla propria convinzione consiste soltanto nella vanità che inerisce a quest’ultimo atteggiamento

(tutto il testo è disponibile in formato pdf)