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L’esistenza eucaristica di Gesù di Nazaret
di Carmelo Dotolo

1. Simbolica del pane e antropologia della povertà

Non c’è dubbio che l’eucaristia è strettamente legata al nostro cammino, alla ricerca dell’essere uomo, del senso della vita. Essa ci dice chi siamo e chi dovremmo essere, attraverso una presenza apparentemente fragile e banale: il pane e il vino. Non è casuale che nella narrazione biblica appare centrale la simbolica del banchetto, che nella vicenda storica di Gesù diventa segno di uno stile differente di vivere e di dare forma alla condizione umana. Ma la mensa condivisa, diventa anche espressione di uno spazio da costruire, di un luogo nel quale creare le condizioni per una trasformazione della storia. Qui si coglie il dinamismo del progetto creativo di Dio che mira a realizzare la promessa di liberazione e di salvezza.

Va detto, altresì, che il segno del pane esprime una verità antropologica fondamentale: essere uomo è il compito che è stato donato, la cui condizione prima è proprio sapersi accettare, per il fatto che ognuno di noi è caratterizzato da una relazione che appella ad un legame originario. L’uomo è infinito bisogno e risiede in questa povertà la possibilità della sua umanizzazione, ma anche la tentazione di mascherarla con una finitudine chiusa all’orizzonte dell’altro. Da questa angolatura, l’antropologia della povertà simboleggiata nel pane interpreta il significato dell’identità della persona, almeno ad un triplice livello.
In primo luogo, la povertà della vita ordinaria. E’ il segno che la vita non trova in sé la sua consistenza e che ogni uomo è segnato strutturalmente dal bisogno, dal desiderio, dall’aspettativa di un domani differente. Per quanto possa apparire strano, nell’affermazione della povertà come condizione dell’esistenza, è custodito il senso della realtà come dono da percepire e mettere in atto. Nel codice del dono, prende corpo la verità dell’esistenza non secondo la logica della utilità o necessità, ma nel segno imprevedibile di una gratuità che scaturisce dalla libertà.

In secondo luogo, la povertà nella logica dell’amore. Ogni autentico gesto s’amore rende poveri, perché impegna l’uomo nella sua globalità e ha come conseguenza una diminuzione della sicurezza e protezione oggettiva. Chi ama è sempre esposto. Per questo si può amare solo se si è nello spirito di povertà, capaci, cioè, di non appiattire l’altro, di lasciarlo libero nella sua singolarità, che sovente ci strappa a noi stessi e alle nostre prestabilite visioni della vita. Chi non è povero rimane chiuso in sé, incapace di futuro, in quanto non aperto all’avvento dell’altro. L’amore, secondo l’intenzione del Nuovo Testamento, implica l’inversione del movimento connaturale dell’io verso l’io e l’instaurazione dell’esistenza fatta di relazioni basate non sulla logica della proprietà e della autosufficienza. Proprio come ha vissuto Gesù Cristo che, nell’esperienza del decentramento di sé e nel dono agli altri, ha comunicato il valore della logica dell’amore che non conosce confini. Non è un caso che il paradigma del buon samaritano (cf. Lc. 10, 25-37) ridisegna il senso dell’amore come farsi prossimo e, dunque, allarga la comprensione dell’identità che non sussiste se non fa spazio all’altro, nell’accoglienza e nella disponibilità all’ospitalità. Ogni cosa viene ricollocata in un orizzonte differente, la cui motivazione ultima sta nel creare un’etica della solidarietà, anche nell’economia del bene comune. Come non cogliere nei gesti semplici e simbolicamente pregnanti del samaritano, una libertà nell’uso del denaro, nella condivisione dei beni, nell’attenzione alla guarigione dell’altro?

Infine, la povertà come condizione della comunione. Il segreto antropologico del cristianesimo sta proprio nell’essere persona, cioè nella trasformazione dell’individuo in soggetto relazionale e della collettività in comunità. L’uomo è chiamato al superamento dell’individualismo e della controfigura del collettivismo anonimo, dando forma ad una vita che è incontro di soggetti nella libera reciprocità e condivisione. A questo livello, si comprende l’importanza che oggi ha per la storia dell’umanità il valore della convivialità e ospitalità, soprattutto in un contesto di incontro tra differenti culture. Al di là di qualsiasi retorica, si sperimenta sempre più come senza una cultura dell’accoglienza dell’altro e della condivisione, si rischia di rendere sempre più invivibile le nostre città, incrinando il rispetto di chi è straniero e contaminando le risorse della terra. «La civiltà del convivere non è un modello utopico ma è in parte una realtà, anche se esige sempre più la laboriosità del costruire una vita insieme, a molteplici livelli, come condizione di un futuro di pace o almeno di ridotta conflittualità».

(tutto il testo è disponibile in formato pdf)