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La relazione tra teologia e post-modernità: problemi e prospettive
di Carmelo Dotolo

Non è impresa facile cercare di delineare la relazione tra teologia e post-modernità. Il motivo va sicuramente attribuito alla morfologia articolata e complessa che caratterizza il dato della contemporaneità e la stessa possibilità di una sua equilibrata interpretazione. Al tempo stesso, situare la riflessione teologica dinanzi alle provocazioni teoretiche ed etiche della cultura contemporanea, richiede di operare un’attenta lettura delle intenzionalità che attraversano i movimenti di idee che configurano i modelli e i valori dell’uomo contemporaneo, per tentare di aprire un alveo di senso nella frammentarietà delle questioni in vista di soluzioni plausibili. Non è casuale il fatto che irrompa con decisione l’interrogativo su dove vada il cristianesimo in una società orientata ad una esperienza enfatica della gratificazione culturale istantanea; su quale sia la sua specificità in relazione ad un mondo variegato dalla pervasività della religiosità e dalla globalizzazione ideologica; se sia ancora praticabile e lecito porsi la questione dell’essenza del cristianesimo nell’incontro con le tradizioni religiose altre; su quali orientamenti la teologia possa e debba riflettere nei prossimi decenni, sia in relazione alla ridefinizione dell’identità cristiana colpita da amnesia culturale e alle prese con la salutare provocazione della multiculturalità, sia in vista di un percorso capace di coniugare dimensione metafisica e istanza ermeneutica, onde evitare gli estremismi di una frammentazione del proprio sapere.
Al di là dei possibili esiti interpretativi, è certo che la relazione tra teologia e contemporaneità, post-modernità e cristianesimo, disegna una trama inedita di possibilità dialogiche, nella consapevolezza che le mutazioni culturali in atto esigono una lettura attenta delle istanze che il pluralismo, in genere, e quello religioso, in particolare, dichiarano circa il desiderio di attingere o aprirsi al Senso e alla Trascendenza. E’ condivisibile l’opinione di chi sostiene che tale scenario indichi l’urgenza di un cambiamento di paradigma ed una rivisitazione dello statuto epistemologico dei saperi, anche quello teologico. Ciò che è in gioco, comunque, è il futuro di una cultura promotrice di progetti aperti alla realizzazione dell’uomo e il modo di essere cristiani, in un momento epocale che va considerato un segno dei tempi rilevante per una profetica interpretazione. Non sfugge il dato che, sullo sfondo di questa inedita geometria dell’umano, il discorso della fede sembra da annoverarsi o tra le tante patologie che contribuiscono ad alimentare il disagio della civiltà, o tra le molteplici reazioni ad una Weltanschauung connotata da un razionalismo divenuto, oltre che insopportabile, risibile a motivo della sua inettitudine a dare risposte adeguate alle questioni dell’esistenza. Motivo questo sufficiente per aprire i varchi ad una religiosità modellata sulle istanze della posthistoire, sempre più interprete di una stasi culturale indifferente all’ipotesi di progetti in grado di azionare le leve di una nuova stagione storica. In tal senso, mentre si è smarrita la tranquilla coabitazione tra fede ed esperienza abituale del mondo, si è avviato il processo (forse inconscio) di una privatizzazione della fede in una sfera disincarnata dalle mediazioni culturali, desiderosa, forse, di proteggersi dalla collisione con il sapere postmoderno connotato dal provvisorio, dall’imprevedibile e da tutto ciò che indica una situazione di trasformazione. Se il frammento e la tematizzazione del parziale sembrano configurare il volto dell’identità post-moderna, la possibile risposta ad una ineluttabile e indecifrabile emergenza del senso è quella che si inscrive nei tratti della attuale fenomenologia culturale: indeterminazione, decanonizzazione, vacanza del Sé, ironia, ibridazione, immanenza, costruzionismo, leggerezza e molteplicità.

Eppure, entro tali traiettorie teoretiche che inclinano a ritenere la differenziazione degli ambiti di significato il comune denominatore della decostruzione operata dalla post-modernità, il ritorno alla religione e alla possibilità multiforme di esperienza religiosa, appare quantomeno indicativo di una strana convergenza in grado di funzionare da antimodello dentro l’apparente discontinuità di un sistema culturale che fa del provvisorio e del frammento la propria stabilità. L’affermare che la cultura postmoderna “costituisce, già di per sé, un’apertura verso l’esperienza religiosa, intesa nel suo senso proprio”, rinvia all’esigenza di un’analisi più articolata e coerente, soprattutto dopo l’ipotesi di una liquidazione della religione scaturita dal movimento della razionalizzazione del mondo della vita e congetturata dalla lettura sociologica della secolarizzazione. Ma, a ben guardare, la questione si complica proprio nel tentativo di delineare lo specifico dell’esperienza religiosa che, di fronte agli sbarramenti di un razionalismo incapace di organizzare il vissuto, preferisce l’accentuazione del potenziale simbolico e onirico. I significati estetici presenti nell’immaginario del sacro divenuto esperienza consueta, naturale si affiancano alla possibilità trasfigurante racchiusa nella fenomenologia mistica intesa quale capovolgimento del reale verso il possibile, dando voce alla richiesta dell’umanità contemporanea di una religiosità affine al desiderio dell’ «umano, troppo umano» destino della vita, non più delegabile ad altri, tanto meno a Dio. Con la conseguenza di una delegittimazione della questione del credere che diventa sempre più un wishful thinking, un believing without belonging che rende il credente un solitario. Tale tendenza alla soggettivazione del credere e delle risposte ad esso muta il credere in un sognare, in un supporre, privo del pathos biblico dell’affidarsi ad un Altro, stemperato a livello di sentimento autoreferenziale. Osserva A. N. Terrin

Su questa scia si può facilmente e senza possibilità di essere smentiti sostenere che oggi credere è più connesso o sostituito con «presentire», «paventare», «supporre» o anche «sognare» o «credere di credere». E’ un credere che è inversamente proporzionale alle «ragioni» del credere tradizionale. E questo avviene tanto più in quanto la credenza è aleatoria, insostenibile con la ragione. L’ingenuità e la credulità stanno alla base e al fondamento dei nuovi volti del sacro in un vortice di frammentarietà e di irrazionalità che coinvolge ogni aspetto della fede e non lascia più intatto alcun momento proprio della vita religiosa, che diventa scomposta e a volte confusa

Entro tali coordinate, la legittimità della domanda sulla importanza della riflessione teologica acquista uno spessore più che mai decisivo, soprattutto se si legge il contributo della teologia nell’ottica di una rilevanza pubblica, in grado di reperire luoghi e modi per parlare di Dio e dell’uomo. In altre parole, la teologia è chiamata a mostrare la capacità di futuro del cristianesimo non miope né addormentato, ma assolutamente critico e inventivo riguardo la crescente stanchezza da parte dell’uomo di essere responsabile e contro i pericolosi oblii della disumanizzazione e dell’analfabetismo di ritorno.


(tutto il testo è disponibile in formato pdf)