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Religiosità
di Carmelo Dotolo

SOMMARIO: 1. Religiosità e complessità sociale; 2. Un sacro a misura d’uomo; 3. Le incertezze dell’appartenenza ecclesiale; 4. Responsabilità evangelica della Chiesa.

L’attuale scena sociale e culturale sta assistendo ad un inedito ritorno del religioso, cui si aggiunge una certa difficoltà ad aderire alla proposta evangelica. L’emergenza di gradi e forme di appartenenza religiosa, fino alle insorgenze problematiche dei fondamentalismi, lasciano aperta la questione se il credere sia frutto di una maturazione o l’atteggiamento che configura il bisogno religioso con la sua carica di significato. La questione che si apre, allora, è perché il cristianesimo sembra relegato nel quadro di una minoranza cognitiva, soprattutto in presenza di una molteplicità di esperienze religiose. Sarebbe ingenuo stigmatizzare il desiderio di una rinascita spirituale come esempio di una persistente immaturità dell’uomo; così come improduttiva l’analisi di chi attribuisce alla religiosità il bisogno di un ritorno al simbolico, al mitico e all’estetico. Se, come è probabile, le nuove fedi segnalano qualcosa di diverso da un semplice risveglio religioso, una sorta di invito al cristianesimo nel presentare credenziali più idonee alla stagione contemporanea, allora il cristianesimo deve saper render ragione in modo nuovo di una sua inalienabile caratteristica: quella di essere una religione storica, nel senso che ha assunto la storia, il tempo profano, e le opere che in quel tempo si compiono, come elementi di salvezza, determinando, con la sua prospettiva etica che cosa alla salvezza concorre e che cosa allontana. Di fronte alla complessità di tale dato è opportuno sostare sulla configurazione di un simile tracciato.

1. Religiosità e complessità sociale

Senza dubbio, uno degli aspetti più evidenziati dalla letteratura in proposito, soprattutto filosofica, è la caduta degli steccati di un razionalismo filosofico e scientista che aveva preteso di ingabbiare la realtà, impedendole qualsiasi fuoriuscita empirica. Può essere indicativa l’analisi di J. Habermas che, parlando di un pensiero post-metafisico, evidenzia come sia svanita l’illusione di poter conoscere la totalità, elevandosi all’altezza dell’Assoluto. L’effetto è stato quello di dichiarare il sapere filosofico non più capace di rispecchiare oggettivamente la realtà, a favore di una attività interpretativa entro una particolare tradizione storico-culturale. Terminate le grandi narrazioni, il pensiero post-filosofico si accontenta di piccoli e brevi racconti in grado di accompagnare l’insostenibile leggerezza dell’essere, cercando di essere disponibile ad una verità che abita nel frammento e nella irriducibile eterogeneità. E’ salutare, pertanto, il ritorno della religione che, nel lenire le cicatrici dell’ordine imposto dalla ragione, si mostra più affidabile a reperire significati meno perentori e più vicini all’uomo e alla sua ricerca di equilibri teoretici e pratici. Sulla falsariga di quanto detto, l’ipotesi è quella che assegna all’esperienza religiosa quel ‘bisogno di compensazione’ in grado si smorzare gli effetti, talora patogeni, di un clima di incertezza e rischio sociale. La domanda di rassicurazione circa il bisogno di identità e appartenenze stabili, esprime non solo la scomparsa di strutture di plausibilità ritenute patrimonio di tutti, ma anche la necessità di orientamento nelle scelte della vita, invocando come principio esistenziale la consulenza a fine benefico. «Gli uomini e le donne postmoderni, volenti o nolenti, sono condannati a una continua scelta, e l’arte dello scegliere si basa soprattutto nell’evitare un pericolo: quello di lasciarsi sfuggire l’occasione buona, vuoi per non averla vista in tempo, vuoi per non avere impiegato sufficiente zelo per afferrarla, vuoi perché ci è mancata la forza fisica o spirituale per raggiungerla. Per evitare questo pericolo, gli uomini e le donne postmoderni hanno bisogno di consulenze. La variante postmoderna dell’incertezza non genera il bisogno delle visioni escatologiche nelle quali si è specializzata la religione, ma genera piuttosto una crescente richiesta di consulenza esistenziali impartite da esperti nel sopire o curare i problemi di identità» (Z. Baumann, Il disagio della postmodernità, Bruno Mondatori, Milano 2002, 216).
L’imperativo sta nel ridurre la complessità, sempre più stressante, dovuta alla differenziazione degli ambiti di significato e del pluralismo delle fonti che producono valori e modelli culturali. Per questo, la cultura postmoderna esprime, già di per sé, un’apertura verso l’esperienza religiosa, intesa nel suo senso proprio, visto che non abbiamo più la sicurezza che deriverebbe dalla nostra permanenza nel vero. Il configurarsi, quindi, di una religiosità individuale, allergica alle forme istituzionali della elaborazione religiosa, non va intesa semplicemente come conseguenza logica della individualizzazione dell’esistenza, bensì quale capacità dell’individuo di costruire da sé i significati datori di senso. Il profilo emergente è quello di un bricolage delle credenze, che sembra confermare il desiderio di una religiosità emotivamente appagante, la cui traduzione è rintracciabile nella domanda di una religione a scelta, sul modello del menù. In fondo, credere non costa nulla se alimenta lo spazio del sogno e di mondi mistici. Probabilmente, è la conseguenza di un bisogno di spiritualità che si connota per la immediatezza del riferimento, sebbene arbitrario, a scelte di tipo religioso e/o etico, certamente in linea con una concezione sociale misurata sul sistema dei bisogni. Nondimeno, però, affiora l’esigenza di un permanente lavoro di reinterpretazione della tradizione in funzione dell’attualità e delle domande del presente, quasi a ribadire che il significato della religione non è depositato nella saggezza della memoria, ma nella praticità della sua aderenza alle improvvise svolte che la vita impone. In altre parole, in un classifica di gradimento i primi posti sono occupati da quelle esperienze religiose che consentono un ‘consumo del sacro’ immediato e una sensazione di rilassamento a portata di mano; che centrifugano i prodotti dello spirito nello spazio del privatistico, mettendo in scacco le traiettorie della trasmissione e la sua qualità in ordine alla capacità di interpretare autenticamente il bisogno religioso. In effetti, a voler perimetrare le dimensioni dell’esperienza religiosa, ci si imbatte in una stratificazione della sua morfologia, nella quale convivono differenti istanze: da quella comunitaria che demarca i confini del gruppo, a quella etica che accetta valori che possono prescindere dai criteri dell’appartenenza; da quella culturale che intende il religioso come bene culturale comune, a quello emozionale in cui prevale l’intensità e la gratificazione del vissuto religioso, fino a forme di spiritualità ecologica pacificata e unificante. Il risultato è quello di rifunzionalizzare costantemente la religione. Nell’ottica della richiesta costante di benessere psico-fisico, l’esperienza religiosa viene relegata al tempo libero e investita di un ruolo capace di riabilitare il soggetto postmoderno ad una leggera riappropriazione degli ambiti della vita, per non dover soccombere ai ritmi insostenibili della realtà.

 

(tutto il testo è disponibile in formato pdf)