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“…Una gente santa…”(LG 9). La santità del popolo di Dio
di Carmelo Dotolo

1. Il significato teologico della categoria di santità

E’ indubbia la difficoltà nel definire la santità, la cui ampiezza di significato rinvia alla multiforme esperienza religiosa che attraversa la storia dell’umanità. Il motivo non risiede solo nella fluidità concettuale del termine che esige una verifica contestuale all’uso, ma anche nella disponibilità della parola a modularsi in differenti modi che potrebbero apparire perfino contrapposti. Non è casuale, infatti, il fatto che il termine santo-santità, sembra non riuscire a corrispondere a lineamenti precisi e individuabili, testimoniato anche da un’ambivalenza originaria che risiede nell’etimologia stessa. E’ sufficiente indicare nella maturità della religione l’espressione indicativa del senso della santità, che si esprime nell’abitare le energie personali dell’uomo? In modo emblematico W. James, sostiene che la santità, pur nella complessità delle sue forme, è presente nella storia delle religioni attraverso una tipologia comune che evidenzia un processo di liberazione interiore e spirituale capace di allontanarsi dagli spazi dell’emozionale e della concentrazione su se stessi.

Eppure, proprio tale configurazione sembra non essere attigua alla elaborazione della fenomenologia della religione, per la quale la santità allude sì ad una dinamica relazione dell’uomo con il divino, ma secondo canoni di purezza che intrecciano il rituale e l’etico. Anzi, la santità si profila come proprietà del divino, estesa come possibilità anche all’esistenza umana, fino a denotare una coincidenza concettuale tra divino e santità. Se poi, la categoria di santità non è altro che una puntualizzazione del concetto di sacro, lo sforzo interpretativo si trova a doversi orientare in uno spazio labirintico. Il motivo risiede nel fatto che il sacro non necessariamente evoca una esperienza specificamente religiosa; anzi, talvolta si presenta come realtà anonima, che intercetta l’uomo nella sua pretesa di gestire l’esistenza, in una interdizione che sollecita la distinzione, se non addirittura la contrapposizione, tra la sfera della vita quotidiana e lo spazio di una realtà altra, la cui funzione è quella di provocare il bisogno di una sospensione della vita stessa. Eppure, anche in presenza di questa ambiguità che traduce l’esigenza di distinguere tra natura e disnatura della religione, il significato della santità sembra oltrepassare l’equivocità del sacro e investirlo della sua capacità di mediazione, a condizione di inscrivere l’esperienza religiosa nella qualità relazionale tra la manifestazione del divino e la recezione dell’uomo.

A ragione sottolinea H. Bouillard: «Quando il sacro, sciolto dal suo riferimento al divino, al “totalmente altro”, è assolutizzato in se stesso, assorbe in sé l’essere e il valore. Il profano è allora rigettato dalla parte dell’irreale, dell’illusorio, dell’impuro […] L’uomo moderno, che vuole essere il soggetto e l’agente di questa storia, il creatore della sua propria cultura e della sua personalità, considera il sacro come un ostacolo alla sua libertà, come una causa di alienazione. E ha ragione là dove l’uomo religioso dimentica il carattere relativo del sacro, la sua posizione mediana e intermediaria tra l’uomo e il divino. Alienante non è la trascendenza, ma l’assolutizzazione del sacro, soprattutto quando è socialmente istituita».

La trama intrecciata del significato di santità è sottesa anche alla riflessione teologica, nella quale va tenuta presente la molteplicità dei livelli di comprensione con i quali è stata narrata nella tradizione cristiana. Senza entrare nel conflitto delle interpretazioni e dei modelli rappresentativi, la categoria santità sembra connotarsi per un carattere di eccezionalità, sebbene sia difficile coglierne agevolmente il proprium, a motivo della pluralità dei paradigmi che ne traducono l’intenzionalità di pienezza della realizzazione umana e cristiana dell’esistenza dinanzi a Dio. Tale intenzionalità richiede la necessità di andare oltre il dato fenomenologico-culturale che assegna alla figura del santo ruoli e responsabilità differenti secondo determinate visioni della realtà religiosa e teologale, ed indica l’istanza di penetrare teoreticamente le caratteristiche della santità, sapendo discernere determinate ermeneutiche della santità che assumono categorie spirituali e di perfezione su moduli standardizzati.

E’ condivisibile quanto annota B. Secondin: «Forse non si leggono più le vite dei santi scritte alla vecchia maniera: ma certamente si continua a venerarli alla vecchia maniera, si cercano ancora – almeno a livello di narrazioni popolari, di tipo prevalentemente orale – i segni dello straordinario, del taumaturgo, dell’uomo di Dio investito di potere quasi magico. Nel popolo comune mi pare che permane la concezione del santo come uno che “fa grazie”, uno che si può prendere cura dei nostri guai, uno da rendersi anche amico con gesti e visite per avere favori e fortuna».

 

(tutto il testo è disponibile in formato pdf)